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Lettera di un docente sulla visita pastorale all’IC6 di Forlì

8 Dicembre 2016

Gabriele Turci, docente della scuola di stato IC6 – Forlì, ci ha inoltrato le seguente lettera, che pubblichiamo integralmente.

La recente e inunsuale decisione di autorizzare l’esercizio della visita pastorale del vescovo nella scuola statale in cui svolge servizio lo ha spinto a scrivere al Consiglio di istituto, al Dirigente scolastico, a tutte le colleghe e tutti i colleghi. Perché un faccia a faccia con un vescovo all’interno di un preciso percorso didattico può essere opportuno, ma non altrettanto una visita pastorale, ossia l’esame da parte di una guida religiosa in una operazione di facciata senza alcun progetto didattico alle spalle.

Tra gli episodi ricordati da Gabriele Turci spicca la chiusura di un corso molto partecipato di storia delle religioni, a causa di presunta “concorrenzialità” con l’insegnamento della religione cattolica.

– Al Consiglio di Istituto del IC6 – Forlì
V.le F.lli Spazzoli 67 – 47121 – Forlì
– Alla Dirigenza Scolastica dell’IC6-Forlì
– Alle colleghe e colleghi dell’IC6- Forlì
– Al Vescovo della Comunità Cattolica Forlivese
Palazzo Vescovile – P.za Dante Alighieri, 1 – 47121 Forlì
– Ai parroci delle Comunità Parrocchiali prossimali all’IC6-Forlì
loro sedi

Forlì 2 dicembre 2016

Care e cari tutti, permettetemi di iniziare così, con un tono colloquiale e amicale, perché la mia non vuole essere né un pamphlet, né una contorta forma d’esposto, né una sequela di recriminazioni.
Desidero, approssimandosi ormai gli ultimi mesi di servizio in quella che ho sempre sperato essere la scuola pubblica di stato, provare a spiegare, una volta di più, piuttosto che una di meno, la mia posizione – come docente, come cittadino e, permettetemelo, anche come uomo che avverte e non disconosce il senso di vivere comunque forme di intensa spiritualità – nei confronti dell’apertura e della concessione all’autorità vescovile cattolica di esercitare una visita pastorale nei locali del nostro istituto.
Premetto che non scrivo per avere alcuna risposta: non è questa l’intenzione, non intendo con questa mia iniziare un qualsivoglia confronto di idee, desidero solo che ciascuno provi a misurarsi con quanto asserisco, impieghi poi ciascuno il tempo che merita questa riflessione e quindi, in una futura occasione che, immagino, non mancherà, provi a verificare se, per caso, non possano essere praticate soluzioni differenti.
Se posso, vorrei partire dall’uso delle parole che è bene riportare al loro senso originario, pena una banalizzazione di pensieri e di azioni.
Quando si parla di “visita pastorale” si permette, con troppa leggerezza, una diluizione non solo stilistica, ma persino storica dell’espressione.
Se andiamo alle note del Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi “Apostolorum successores – n. 221”, scopriamo che La Visita pastorale è «una delle forme, collaudate dall’esperienza dei secoli, con cui il Vescovo mantiene contatti personali con il clero e con gli altri membri del Popolo di Dio. È occasione per ravvivare le energie degli operai evangelici, lodarli, incoraggiarli e consolarli, è anche l’occasione per richiamare tutti i fedeli al rinnovamento della propria vita cristiana e ad un’azione apostolica più intensa».
Anche il Codice di Diritto Canonico, dal Can. 396 al 400, affronta la questione e, alla voce “Visita Pastorale”, asserisce come questa costituisca uno dei doveri più espressivi del Vescovo che ha l’obbligo di visitare tutta la Diocesi almeno ogni cinque anni (Can. 396 – §1. Il Vescovo è tenuto all’obbligo di visitare ogni anno la diocesi, o tutta o in parte, in modo da visitare tutta la diocesi almeno ogni cinque anni, o personalmente oppure, se è
legittimamente impedito, tramite il Vescovo coadiutore, o l’ausiliare, o il Vicario generale o episcopale, o un altro presbitero.
).
Interessante, a questo proposito è il Can. 397, comma 1, dove si asserisce che “Sono soggetti alla visita ordinaria del Vescovo le persone, le istituzioni cattoliche, le cose e i luoghi pii che sono nell’ambito della diocesi”.
Ovviamente ci sono dei limiti solo apparentemente curiosi, come il successivo comma sempre del Can. 397: “Il Vescovo può visitare i membri degli istituti religiosi di diritto pontificio e le loro case solo nei casi espressamente previsti dal diritto.”.
Da tutto questo si evince che:
a) la visita pastorale è squisitamente un atto che sta dentro l’ambito pastorale e di guida religiosa del vescovo;
b) la visita pastorale è rivolta esclusivamente alla diocesi di pertinenza del vescovo e cioè alla specifica porzione del popolo di Dio, circoscritta territorialmente, che viene affidata alla cura pastorale di un Vescovo;
c) i cristiani, certo membri della chiesa, ma appartenenti ad istituti religiosi, generalmente quelli cresciuti in forze ed estensione o fondati direttamente dalla S. Sede, godono del non assoggettamento all’autorità diocesana, cioè il vescovo.
Questo inquadramento è assolutamente essenziale, diversamente rischiamo di considerare, come ha del resto fatto il Consiglio di Stato con la sentenza della Sezione Sesta del 6 aprile 2010, n. 1911, la visita Pastorale un mero atto di manifestazione culturale, poco di più, probabilmente, di una visita alla sagra del tartufo.
Qui questo organo ha ritenuto che “nella deliberazione del consiglio di istituto, con cui viene autorizzata la visita pastorale dell’Ordinario diocesano alle comunità scolastiche, non può riconoscersi un effetto discriminatorio nei confronti dei non appartenenti alla religione cattolica, dal momento che (…) la visita programmata non può essere definita attività di culto, né diretta alla cura delle anime secondo la definizione contenuta nell’articolo 16 della legge n. 222 del 1985, ma assume piuttosto il valore di testimonianza culturale, tesa ad evidenziare i contenuti della religione cattolica sotto il profilo della opportuna conoscenza, così come sarebbe nel caso di audizione di un esponente di un diverso credo religioso o spirituale”.
E’ qui evidente come i professoroni del Consiglio di Stato non conoscono neppure gli atti giuridici della Chiesa Cattolica, ma sappiamo come va il mondo, o meglio il nostro Paese: sovente il Consiglio di Stato appoggia, più che contraddire, il potere politico e il potere politico è, in Italia, “costantinianamente” sdraiato come un tappetino ai desiderata di oltre Tevere.
Questa vicenda delle Visite Pastorali è emersa storicamente, all’indomani della normativa che escludeva gli atti di culto in orario scolastico (vedi nota in allegato che qui, per brevità non si riporta); infatti, chi di noi è già in là con gli anni non ricorda certamente nessuna visita pastorale tra gli anni 50-70, ma ha ben presente le messe di inizio anno o le benedizioni pasquali, rigorosamente in orario scolastico.
Se il Consiglio di Stato ha sofferto di strategie costantiniane per il bene del principe, la cosa può irritarci ma non scandalizzarci, più grave, se posso, è uno speculare atteggiamento da parte del clero cattolico, le loro autorità in primis, che in tutto il territorio nazionale hanno, chi più chi meno, lanciato queste iniziative a tutto campo (in alcuni istituti sono arrivati pure a mettere un sacerdote a disposizione del supporto spirituale dei ragazzi), dove è apertamente messa in campo la volontà di porre “bandierine”, non solo spirituali, sul territorio, aprendo una falla nella concezione liberale della “libera chiesa in libero stato”, quale è recepita dalla norma costituzionale ancora in vigore:
Art 7: “Lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e
sovrani…

Come docente mi domando allora: è più opportuno e logico che sia il vescovo che si propone in un ruolo di visita istituzionale o non è piuttosto la scuola che non deve aver paura di un confronto che però deve muovere da precisi percorsi didattici da lei scelta.
Questi ultimi vanno obiettivamente e rigorosamente inquadrati in un percorso specifico e non rituale.
Pertanto è certamente meglio, anzi è la sola cosa logica, vorrei dire possibile, che la domanda di un incontro con un vescovo o comunque un rappresentante significativo del mondo cattolico provenga dalla scuola (un istituto o un plesso) o da una parte di essa (una classe o un insieme di classi) a seguito di un percorso didattico, ad esempio, ove si trattasse di problemi di emarginazione, carceri e simili, non troverei assurdo avere indicativamente tra gli interlocutori soggetti come Giovanni Nicolini, già direttore della Caritas a Bologna, così come, per tale bisogna, se ne potrebbero specularmente trovarealtri affini in soggetti del sindacato, in immigrati e organizzazioni anche non cattoliche, sia italiane che di immigrati.
Ma ai nostri vescovi sembrano interessare più le operazioni di facciata e, specificatamente di ruolo istituzionale.
Il vescovo intende entrare, almeno a me così appare, nella scuola come un’autorità riconosciuta, alla pari di un direttore, di un assessore, anzi di un sindaco.
A questo proposito un aneddoto val più di tante parole.
Ricordo come anni fa, nella mia classe, volendo poter visitare la raccolta di reperti antichi (preistorici e celtici-romani) del nostro museo, assurdamente ancora non visibili al pubblico per un’eterna ristrutturazione (ancora non conclusasi…) si ebbe l’idea di scrivere una lettera-interrogazione al sindaco.
Questa lettera, scritta e firmata dai bambini, stupì ed intrigò il sindaco che, non potendo assicurarci la visita al museo chiuso, si offrì (si trattava allora del professor Balzani) di fare lui una lezione storica nella stessa classe, a mo’ di riparazione.
La cosa piacque ai bambini e interessò i docenti, ma quando il sindaco venne alla scuola,
non fu organizzata una visita collettiva per tutte le classi, ed espletati i saluti di rito con la preside presente in sede, Balzani tenne la sua lezione, curiosa ed avvincente nella classe.
Ecco questo era ed è un modo per non mettere bandierine.
Altrettanto si fece alcuni anni fa quando il rabbino Luciano Caro venne invitato da una classe, nel quadro di iniziative attinenti alla storia delle religioni, in quel caso il rabbino fece la presentazione della sua comunità, della sua storia, del suo cammino.
Tempo dopo ecco, durante lo studio dell’Islam, un iman locale, accompagnato da un genitore della nostra scuola membro della stessa comunità di fede islamica, fu invitato a partecipare ad una delle nostre lezioni dove vi fu una lunga chiacchierata piena di domande dei bambini.
Insomma sempre incontri molto faccia a faccia, senza l’ansia di una presenza sottolineata, perché l’unica sottolineatura era il far presente che quella era ora di lezione, ora dove metodo e disciplina dovevano essere quadri di riferimento, dove contava poter mettere a confronto adulti speciali con una ventina di teste speciali.
Osservano, molto opportunamente, i colleghi dell’associazione “Manifesto dei 500” che oggi, dopo la serie non certo fausta di riforme e controriforme che in un arco di un ventennio si sono succedute senza sostanziali segni di discontinuità, la “… scuola dell’Autonomia, lungi dall’essere una scuola veramente indipendente dai poteri politici, religiosi, economici, si espone molto più che in passato alle ingerenze, alimentate anche dalla carenza di fondi che può indurre a stipulare accordi che finiscono poi per “legare” le scuole a interessi esterni.
La scuola pubblica statale non è un luogo dove chiunque possa andare a manifestare le proprie idee, giuste o sbagliate che siano, e a portare i propri valori; da questo punto di vista è assolutamente fuori tema argomentare dicendo che il vescovo (o chiunque altro) è venuto per “portare valori culturali condivisi” o che è “aperto”, che parla di “pace” o quant’altro.
Il problema non è solo “di che cosa” parla, ma “chi” parla.

Bella asserzione questa: proviamo proprio a domandarci chi parla dunque nella scuola?
Per quanti docenti, per quanti genitori oggi, la scuola pubblica statale è ancora uno dei luoghi dove, nel quadro dei programmi nazionali (oggi indicazioni) e della libertà d’insegnamento garantita dalla Costituzione, i docenti hanno una piena titolarità di quello che Baden Powell definiva come “il trapasso delle nozioni”, oggi più prosaicamente “passaggio della cultura”?
Questa titolarità dovrebbe discendere dallo stato contrattuale e dalla funzione da esso definita. Non a caso si parla dei docenti come rappresentanti dello stato e Calamandrei, lo ricordo, definiva la scuola (tutta intera, dalla scuola dell’infanzia all’università) una sorta diquarta articolazione dello stato, quasi pari alla magistratura: “La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel
complesso di organi che formano la Costituzione.
Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola L’ordinamento dello Stato, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo.
Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi.
Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo.
Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue”
.(Roma 1950)
Ora può, anzi deve, di più accade ogni giorno, che nel proprio ambito di intervento professionale, nell’ambito della loro personale programmazione, i docenti possano prevedere incontri culturali e didattici con l’esterno. Ciò è legittimamente inquadrabile per la cogenza del loro status, ne deriva come sia chiarissimo che siano e restino loro i titolari e i primi responsabili di queste attività, delle quali sono chiamati a rispondere non solo all’utenza, ma anche nel quadro dello spazio contrattuale.
Quando, invece, si cerca di entrare nella scuola con svariati e multiformi pretesti tipo: “non si fa catechismo” – “sono proposte culturali” senza che ciò sia inquadrato in una reale iniziativa o esigenza di un docente o della stessa scuola, si apre la porta a reali problematiche che si fanno pure pericolose.
Risulta, infatti, confusa e pretestuosa questa spensierata confusione di piani dove, al di là di dare spazio a interessi particolari, di fatto si rimette in causa il ruolo che la nostra Repubblica assegna ai docenti.
Certamente aver affossato i Programmi Nazionali ha aperto una breccia considerevole in questo impianto e non è detto che la cosa sia stata casuale.
Ma qui apriremmo un’altra ferita profonda, concettuale, filosofica e di politica scolastica insieme, basti pensare al concetto di “rete” che è utilizzato, a destra e a sinistra, per scardinare la scuola pubblica statale e privatizzarla, non solo sul piano normativo e burocratico, ma, di più, sul piano del pensiero stesso, di ciò che sta nell’immaginario collettivo.
Torniamo quindi a noi, a questa più piccola, ma non marginale questione e serviamoci, ancora una volta, di esempi aneddotici che valgono più di mille parole.
Peccato, infatti, che quelle esperienze, prima citate, attive nel Primo Circolo Didattico e che ben animavano quelle “piccole testoline” abbiano finito per non incontrare proprio il favore di chi governava la diocesi!
Forse fu più un furente non capire o l’eccesso di zelo di qualche suo funzionario, eppure la presenza di un corso, molto partecipato quanto a numeri, di storia delle religioni divenne mal sopportato e caldissime telefonate con la Direzione Didattica di allora sono una poco onorevole testimonianza di paure vere che scorrevano nella testa di chi temeva chissà quali attentati alla propria fede.
Si arrivò a chiedere che non si verificasse più una situazione di tale “concorrenzialità” come se la scuola cedesse ad un suo ruolo proponendo un corso alternativo di Storia delle religioni, del resto tenuto solo dalla classe terza in poi, non ritenendo i docenti che prima di questa età fosse proponibile un qualsivoglia progetto di cultura e studio storici.Va da sé che, in un modo e nell’altro, la cosa si concluse e il segnale dato credo sia stato ben recepito da tutti i docenti, perché si sa il sistema è sempre quello di “colpirne uno per educarne cento”.
Di fatto, “ça va sans dire”, l’esperienza di quei docenti non fu ripresa in mano dal Collegio, né inserita a pieno titolo nel piano del POF.
Qui poi occorre smascherare un altro artificio: la spiegazione sovente utilizzata dai docenti di religione, “ma noi facciamo già Storia delle religioni…”
A parte il fatto che in un corso normale di storia delle religioni non si tratta solo delle grandi religioni monoteiste, un corso di storia delle religioni non ruota intorno alla religione cattolica, come la terra intorno al sole.
Altre sono le finalità, è del tutto evidente, e non sono di relativismo culturale, ma di predisposizione all’approccio, alla conoscenza, integra e non viziata da sottolineature, delle varie scelte di esperienza spirituale che sono corse o corrono tra la popolazione umana, tenendo poi presente che in un corso di scuola primaria è anche indispensabile operare pure scelte di approccio, rassegnarsi a tagli e riduzioni perché non vi è né il tempo né la competenza specifica dei bambini per approcciarsi a tutto, tuttavia è possibile fare un primo percorso che, per gradi e qualche compromesso, dalla Dea Madre arrivi alla riforma protestante. Insomma offrire uno sguardo generale che, successivamente, nei vari gradi di scuola che seguiranno, andrebbero giocoforza ancora approfonditi e dilatati.
Anche questo lungo inciso aneddotico si lega alla questione della visita pastorale perché tutto ciò è segno del disagio che troppi stiamo vivendo.
Quello dei cattolici, almeno tanti fra di loro, che temono la perdita di senso dei loro obiettivi educativi, quello del mondo “laico” che vive con sensibilità le intrusioni, non sempre a piede leggero, di istituzioni clericali (e questa non è una connotazione di per sé negativa) e non solo, nella scuola.
Alla base vi è il bisogno di identità che affiora in singoli e in alcune famiglie, in parte del mondo insegnante ed anche in settori della società civile.
Le identità vanno certamente salvaguardate ma vi è un nesso che è proprio della scuola pubblica, così come essa si forma, pian piano, dalle lotte sociali e politiche che dal 1789 (ma anche in ambito riformato) fino alle concezioni liberali e socialiste insieme che furono alla base del movimenti di resistenza italiano.
Tra tutte queste ultime vanno citate Ada Gobetti, Margherita Zoebeli e Leletta D’Isola (per quest’ultima la Chiesa Cattolica ha avviato un processo di beatificazione) ma non si possono dimenticare le esperienze di Aldo Capitini, Don Milani e innumerevoli altri in tutto il nostro paese… Di don Lorenzo Milani mi piace ricordare la fulminante asserzione:  “… Poi ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto che diventassero loro. Ad avere io un pensiero impregnato di religione. Quando ci si affanna a cercare apposta l’occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare…”. Ah quanto di questo vale altrettanto e sempre per chi si considera laico; quanti, anche non credenti, sono rivestiti di corazze lucenti ma dietro è il vuoto assoluto.
Certo, le cose scritte sulla scuola da costoro sono limpide e chiare.
La loro idea di scuola non è una scuola confessionale ma una aperta al confronto, una scuola dove ciascuno è umile portatore del proprio percorso di vita ma dove nessuno può neppure operare scelte assolutizzanti
Ricordo quanto asseriva Maria Luisa La Malfa che argomentava la necessità di un forte indirizzo pluralista della scuola pubblica di stato perché compito di questa “… era ed è anche quello di proteggere i bambini dalle loro famiglie…” intendendo non che lo Stato dovesse essere una marcia in più, un‘entità anonima al di sopra delle famiglie o dei singoli, ma che nessuno poteva pretendere dalla scuola una linea ideologica interpretativa univoca sui massimi sistemi della vita o anche solo sanitari, alimentari ecc.Per questo una scuola pubblica seria vigila sullo stato di salute mentale e fisico dei suoi allievi, per questo però non si fa portatrice di un’unica fede, per questo cerca di aprire le menti degli studenti ad una metodologia di studio e di ricerca multifattoriale, critica e curiosa.
E’ evidente che prima di fare tutto questo percorso, i soggetti interessati devono cominciare a ragionare fra di loro.
Prima quindi di continuare a proporre ingressi con armi e bagagli nella scuola o di far barricate contro di loro, qualsiasi siano le armi e le barricate e da qualunque parte provengano, non sarebbe male rifare il punto, costantemente aprendo un confronto (non si può fare una volta per tutte, il percorso è fluttuante e per sua necessità a direzione imprecisa e casuale) fra le realtà che operano nella scuola, cominciando a porsi domande:
sul senso, la finalità, la direzione, in primis delle ore di religione e contestualmente di Ora Alternativa proposte, sulla necessità (chi le avverte, sulla base di che, per dimostrare cosa) di proporre ritualità religiose anche solo in ambito extrascolastico, e via andare…
Prima di tutto sarebbe bene fossero gli insegnanti a farsi domande, imparando a fare i conti sulla propria chiarezza identitaria.
Poi questi interrogativi non possono non investire anche le famiglie che seguono sovente come gregge, magari mugugnando, qualunque cosa la scuola proponga, che non sempre conoscono i propri diritti costituzionali, che non conoscono il modo per conseguire miglioramenti didattici…
Infine sarebbe bene che le autorità scolastiche e quelle religiose imparassero ad ascoltare ciò che da questo percorso può nascere.
Io sono certo che del bene ne verrebbe a tutti.
Quando vedo il vescovo di Forlì aggirarsi per la città in bicicletta, senza fronzoli e come un normale cittadino, mi dico che tanto è cambiato e che tutto ciò è assai positivo.
Abbiamo bisogno tutti di comunità di fede, non importa se laiche o religiose, ma che siano profetiche e sempre meno appoggiate su diritti o privilegi, anche solo buonisti, e abbiamo bisogno di una società che sappia far dialogare queste comunità, non punti a farne recinti blindati o protetti e abbiamo bisogno di una scuola che sappia guardare dritto davanti a sé, orgogliosa dei propri percorsi, conscia che sono di tutti e per tutti ma senza una cornice di riferimento “ortodossa”.
Certamente importante sarebbe promuovere un percorso che desse luogo a processi educativi quali il riconoscimento di ogni singolarità e dei suoi bisogni; la cooperazione e la condivisione delle scelte; la consapevolezza che l’apprendimento non si risolve nell’istruzione, ancor meno nella semplice acquisizione di contenuti preordinati; l’importanza, nell’apprendimento, dell’aspetto metacognitivo; il privilegio di un
apprendimento attivo, di una scuola del fare; la cura e l’attenzione all’altro da sé nel privilegio di forme di relazione dialogica improntate al reciproco ascolto; il riconoscimento della differenza come valore; il rifiuto di forme di valutazione giudicanti a favore di processi partecipati di osservazione e di auto osservazione della propria esperienza.
Il fine dovrebbe essere quello d’instaurare nella scuola pubblica statale principi ed esperienze strettamente collegate ad «una pratica organizzativa di tipo democratico» nella forma della democrazia diretta. Ciò consentirebbe ad ogni soggetto di partecipare concretamente alle scelte che riguardano gli «ambiti organizzativi» trovando riconosciuta nel collettivo la propria singolarità individuale.
Ogni soggetto che prende parte al contesto educativo dovrebbe essere considerato in grado di decidere, in piena autonomia, forme, tempi e modi della propria esperienza di autoapprendimento, sia da solo che insieme ad altri.
Questo contesto privilegiato dovrebbe essere definito “scuola” e non istituzione scolastica, quindi di fatto “oltre” – come direbbe Capitini – a qualsiasi istituzione formale riconosciuta
che opera compiti educativi (Famiglia, Scuola e Chiesa).

Mi auguro che una riflessione sul senso profondo delle visite pastorali nasca nel cuore di tutti e porti a convincimenti e a scelte operative atte a promuovere la crescita umana di tutti e la sensibilità al vero e al giusto.
Buon lavoro e buon cammino.

Gabriele Attilio Turcidocente scuola di stato IC6 – Forlì

…Los niños no pueden, ni deben ser católicos, ni socialistas, ni comunistas, ni libertarios. Los niños deben ser solamente lo que son: niños.
L.Sanchez Saornil “Otra vez y mil veces mas. Los ninos” . 1937 – Barcelona

Note di legislazione
• d.lgs. 16 aprile 1994, n.297, recante il testo unico in materia di istruzione, che all’art.311 fa divieto, nelle classi nelle quali sono presenti alunni che abbiano dichiarato di non avvalersi di insegnamenti religiosi, di svolgere pratiche religiose in occasione dell’insegnamento di altre materie o secondo orari che abbiano comunque effetti discriminanti;
• legge 11 agosto 1984, n.449, di approvazione dell’intesa con la Tavola Valdese, che all’art.9 vieta ogni eventuale pratica religiosa che si svolga in orario scolastico o secondo orari che abbiano effetti discriminanti per gli alunni, nelle classi in cui sono presenti alunni che abbiano dichiarato di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica;
• legge 22 novembre 1988, n.516, relativa all’intesa con l’Unione italiana delle Chiese avventiste del 7° giorno (art.11); legge 22 novembre 1988, n.517, relativa all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia (art.8); legge 8 marzo 1989, n.101, relativa all’intesa con le Comunità ebraiche italiane (art.11); la legge 12 aprile 1995, n.116, relativa all’intesa con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (art.10); legge 29 novembre 1995, n.520,
relativa all’intesa con la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (art.8): le quali, con disposti analoghi, vietano che siano previste forme di insegnamento religioso diffuso nello svolgimento dei programmi di altre discipline e che siano richieste agli alunni pratiche religiose o atti di culto;
• sentenza del TAR per l’Emilia Romagna (Bologna, sez.II), del 17 giugno 1993, n.250, che annulla le delibere dei Consigli di circolo che avevano autorizzato lo svolgimento di cerimonie religiose in orario scolastico;
• sentenza del TAR per il Veneto (sez.II), del 20 dicembre 1999, n.2478, che dichiara illegittima la delibera del Consiglio di circolo che disponeva lo svolgimento di attività religiose in orario scolastico. In particolare, con tale ultima decisione, il TAR ha annullato anche la Circolare del Ministro per la Pubblica Istruzione del 13 febbraio 1992, prot. n.1337/544/MS, nella quale il Ministro affermava di ritenere che “…il Consiglio di Istituto […]possa deliberare […] di far rientrare la partecipazione a riti e cerimonie religiose tra le manifestazioni ed attività extrascolastiche previste dalla lettera d) dell’art.6, d.p.r. 416/74”;
• la nostra Costituzione riconosce ad ogni cittadino italiano dei diritti fondamentali inviolabili senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (artt.2 e 3 Cost.); dichiara che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (artt.7 e 8 ) e che tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero e di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma (artt.19, 20 e 21); infine, dopo aver attribuito ai genitori il dovere e il diritto di mantenere, istruire ed educare i figli, afferma che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento e che la scuola è aperta a tutti (artt. 30, 33 e 34);
• la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia del 20 novembre 1989, che riconosce Il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art.14) e Il diritto all’istruzione (artt.28 e 29), è stata ratificata dallo Stato italiano il 27 maggio 1991 con la legge n. 176 ed è, pertanto, giuridicamente vincolante;
• la Corte Costituzionale con la sentenza n.203/1989, dopo aver affermato che i principi
supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi, ha stabilito che la laicità dello Stato è un principio supremo che definisce la forma di Stato e che vanno sempre salvaguardati i principi di libertà religiosa, in un regime di pluralismo confessionale e culturale (cfr. le sentenze n.259/1990, n.195/1993, n.329/1997 della Corte Costituzionale);
• la Corte Costituzionale con la sentenza n.440/1995, dopo aver riconosciuto pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza, ha stabilito che la nozione di religione di Stato …[è] incompatibile con il principio costituzionale fondamentale di laicità dello Stato e che il criterio numerico nelle valutazioni costituzionali in nome dell’uguaglianza di religione è
irrilevante (cfr. le sentenze n.925/1988 e n.329/1997 della Corte Costituzionale).

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